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Ritengo l’epitaffio sulla lapide del poeta romantico inglese John Keats un capolavoro narcisistico: la creativa affermazione della propria unicità di fronte all’ineluttabile, all’angoscia di morte e di annichilimento del Sè. Unicità paradossalmente espressa attraverso l’anonimato.
La tomba di Keats, la lira con sole 4 corde rappresenta la sua arte, espressa solo per “metà”.
Il giovane artista, solamente 26enne si ammalò di tubercolosi, trasferitosi per questioni climatiche a Roma nella casina rosa sopra la scalinata di Trinità dei Monti in piazza di Spagna, visse gli ultimi giorni di vita consapevole del proprio destino e profondamente angosciato e addolorato per quella che potremmo definire l’essenza della tragicità dell’esistenza umana: il timore di morire prima di esser potuti esistere.
Keats sentiva di non esser riuscto ad esprimere il proprio Sè, di essere stato solamente un’esistenza di passaggio, di non aver avuto tempo; per questo raccomandò il suo amico convivente, il pittore Severn di incidere sulla sua tomba solamente poche parole, anonime, senza indicare il proprio nome: “Here lies one whose name was writ in water” , “qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”. Immagine splendidamente evocativa che restituisce il senso di morte prematura e di esistenza “durata” solamente un istante, come una scritta sull’acqua appunto; il ritorno all’acqua, archetipo della vita, della madre, della materia.
Ma proprio attaverso l’atto di annullamento del Sé e dell’identità, Keats ha affermato paradossalmente la sua unicità.
Nel piccolo cimitero protestante accanto alla piramide cestia la sua tomba anonima e senza nome in un capolavoro ossimorico è la più famosa, riconosciuta e visitata da turisti di tutto il mondo.