Sè e bellezza – psicoanalisi, arte, creatività e narcisismo

Pubblicato il 10 aprile 2010 in Psicoanalisi

Scrivere e riflettere sulla bellezza è molto difficile, si rischia di toglierle quel pizzico di magia e di irrazionalità ad essa intrinseca che la rende sfuggevole ad ogni tentativo di definizione o di approccio gnoseologico,  e che appartiene a tutti i fenomeni di espressione autentica del Sé, artistici e creativi. Cercherò quindi di associare pensieri e sensazioni alla bellezza in modo libero e poco strutturato, in particolare rispetto al rapporto tra Sé e bellezza, ponendo in risalto alcune caratteristiche e processi psicologici in essa coinvolti, e dando voce a riflessioni personali tratte dalla mia esperienza clinica e formativa legata alla psicoanalisi e alla psicologia del Sé.

 

L’esperienza che proviamo quando entriamo in contatto con il bello è di tipo oggettuale-relazionale: è complessa e articolata, e attraverso i processi percettivo-sensoriali ci coinvolge a diversi livelli di consapevolezza, chiamando in causa molteplici aspetti del nostro Sé.

Per chiarezza espositiva distinguerò due dimensioni che compartecipano alla determinazione dell’esperienza della bellezza, tenendo però presente che in quest’ambito qualsiasi tentativo di definire, etichettare e distinguere toglie quelle sfumature e tonalità diverse che rendono l’esperienza estetica e sensoriale della bellezza maggiormente conoscibile attraverso i sensi.

Dunque, il processo percettivo che scaturisce dall’entrare in relazione con la bellezza si costituisce di due aspetti al tempo stesso distinti ed interrelati: uno cognitivo, legato al giudizio, e un altro immediato, cioè raccolto dai sensi in maniera non mediata da strutture intrapsichiche complesse; entrambi concorrono a determinare un’emozione, una sensazione, uno stato del Sé.

L’aspetto del giudizio cognitivo è guidato principalmente da fattori culturali, condivisi con i contesti di appartenenza, che in qualche modo hanno a che fare con l’inconscio collettivo junghiano, che mutano nel tempo, strutturano ed orientano l’arte e la cultura e al contempo vengono da esse rivoluzionati e trasformati in un continuo circolo di costruzione, decostruzione e ricostruzione di significati. Questo processo è ciò che ci permette di parlare di un bel posto, una bella automobile, un bel panorama, una bella giornata, senza specificarne il perché e consentendo al nostro interlocutore di condividerne il giudizio in maniera implicita. Il rapporto con questo tipo di bellezza, canonica e condivisa, restituisce una piacevole sensazione di condivisione ed appartenenza.

Il secondo processo coinvolto nell’esperienza della bellezza è qualcosa di più intimo, che ha a che fare con una dimensione profonda, che attiva uno specifico assetto mentale connesso a una specifica emozione: uno stato del Sé, ciò che proviamo quando siamo a contatto con la bellezza. Esso si costruisce attraverso le prime e arcaiche esperienze con l’oggetto idealizzato ed è connesso all’autentica, unica e irripetibile espressione creativa del proprio Sé. Il piacere che si prova in questo caso è di tipo estasiatico.

La dimensione del giudizio cognitivo legato alla bellezza e quella immediata sensoriale ed emozionale dialogano e si influenzano reciprocamente, talvolta si rafforzano, in alcuni casi negoziano, in altri confliggono. Può accadere infatti che ciò che gli altri definiscono bello ci sorprenda positivamente e ci metta in contatto con qualcosa di nuovo, ampliando il nostro concetto di bellezza; altre volte non condividiamo affatto questo giudizio e troviamo bello qualcosa che per gli altri non lo è. In sintesi il rapporto con la bellezza può essere condiviso, personale, di testa (razionale-cognitivo), di pancia (emozionale-affettivo) o di entrambi.

 

Dal punto di vista intrapsichico il rapporto tra Sé e bellezza, intesa come espressione di una perfezione, può essere letto in funzione dei bisogni primari e delle funzioni  svolte dagli oggetti-Sé arcaici, che in psicoanalisi si riattivano nella traslazione (transfert):  partecipazione alla bellezza (idealizzazione), rispecchiamento ed ammirazione della propria bellezza (grandiosità), gemellarità (uguaglianza).

 

L’essere in contatto, e nello specifico l’essere accolti, dall’oggetto idealizzato restituisce al Sé vigore, forza, vitalità, potere e benessere, e struttura il polo degli ideali che guidano ed orientano l’espressione del Sé: la bellezza che tanto ci emoziona è disponibile a noi come un’opera d’arte che “ci concede” di guardarla, ammirarla ed esperirla. Il Sé è all’altezza dei suoi ideali! “Tu sei perfetto ed io sono parte di te”, parafrasando Kohut.

Questo delicato rapporto, immensamente importante nella regolazione del Sé, viene costruito nelle primissime relazioni oggettuali (oggetti-Sé) ma può anche essere trasformato nel tempo, attraverso la rimobilitazione delle relazioni arcaiche nei confronti di un nuovo oggetto-sé idealizzato (ad esempio la traslazione idealizzante che si attiva nella relazione terapeutica).

Mentre la percezione immediata della bellezza, legata al secondo processo sopra citato, è sempre sentita come personale ed autentica, il rapporto con l’aspetto culturale e condiviso è più complesso e mediato perché coinvolge il processo di individuazione ed appartenenza: un arco di tensione che regola il Sé, in continua evoluzione, teso tra i poli estremi della fusione (appartenenza senza confini che annulla il Sé) e dell’alienazione (l’individuazione isolata e scissa dall’altro) e che, quando è in equilibrio, consente di sentirsi integrati al contesto con legami intimi e al contempo diversi, speciali e unici. Quando questo equilibrio non riesce ad essere modulato ci si assesta su una delle due dimensioni estreme: la fusionalità e l’alienazione, entrambe caratterizzate da un annullamento dei confini. E’ questo il caso di organizzazioni del Sé particolari, in qualche modo patologiche, intendendo con questo termine la loro incapacità di sperimentare se stessi con gratificazione e successo.

Nel caso della fusionalità accade che il Sé venga rispecchiato dai primi arcaici oggetti-Sé solamente in alcune dimensioni, e che altre vengano disconosciute e negate perché non desiderate o vissute come conflittuali dagli oggetti-Sé stessi; ciò comporta la costituzione di una bassa autostima, un Sé frammentato, devitalizzato, scarsamente coeso e con un senso di continuità basso: gli stati del Sé disconosciuti vengono scissi verticalmente dagli altri al fine di mantenere il legame vitale con gli oggetti-Sé. L’espressione libera ed  “autentica” del Sé viene inibita e sostituita da ciò che Winnicott definì “falso Sé”: la tendenza inconscia a plasmare se stessi in funzione di ciò che pensiamo gli altri desiderino da noi. In questo caso per essere all’altezza degli oggetti idealizzati occorre corrompere, scindere e disconoscere alcune parti del Sé. E’ come se si crescesse specchiandosi solamente in uno specchio deformante, come quelli dei luna park, ci si costruirebbe un’immagine esteriore di sé inautentica e falsa, ma finché non si riuscisse a vedersi in uno specchio normale ciò non cambierebbe, e comunque la nuova, reale, immagine verrebbe inizialmente vissuta come traumaticamente aliena. E’ per questo che il percorso di psicoanalisi con persone che hanno vissuto esperienze simili è lungo, doloroso, angoscioso e complesso.

Per quel che riguarda il rapporto con la bellezza, tali organizzazioni tenderanno a non sviluppare un proprio gusto estetico e un concetto proprio del bello, ma aderiranno in maniera fredda ed emozionalmente  distaccata a ciò che gli altri definiscono come tale.

Nel caso dell’alienazione il processo che si verifica è analogo ma con destini diversi. Anche in questo caso i primi oggetti-Sè non rispecchiano e confermano la totalità delle diverse parti del Sé, ma stavolta essi non si rendono nemmeno disponibili all’idealizzazione o alla condivisione di essa. Accade quindi che l’espressione autentica e in libertà del Sé venga vissuta come non in contatto con l’ideale e l’idealizzabile, e la scissione verticale che ne consegue è con l’intero mondo oggettuale.  Il Sé è alla continua, tragica, ricerca di se stesso in contatto con l’altro. Rispetto alla bellezza è questo il caso di personalità che sviluppano un proprio senso estetico, alieno e diverso dagli altri, e per questo speciale e ricercato ma al contempo angoscioso e scotomizzato. Ciò che definiamo psicosi e follia ha un confine sfumato con la creatività artistica e l’espressione libera di sé; qualcosa di simile accade in tutti noi coinvolgendo alcune parti del nostro Sé. Un esempio estremo, invece, sono gli artisti pionieri, geniali e innovatori che attraverso l’espressione creativa e dolorosa del proprio Sé hanno consentito, spesso dopo molto tempo e dopo la propria morte, all’arte e alla cultura di trasformare o ampliare il concetto di bellezza e di aprire a nuove esperienze artistiche ed estetiche pagando con una vita dominata dal senso di vuoto e dalla mancanza di relazioni.

L’alienazione e la fusionalità non sono, però, solamente estremizzazioni di un processo modulatorio che strutturano il Sé nella maniera rigida e tragica sopra descritta, ma si verificano in tutti noi: aree di alienazione che fanno sentire soli e distanti, parti del Sé scisse, momenti di intenso bisogno di vicinanza che sconfina nella fusione, accadono di continuo; la loro conoscenza e comprensione, come può verificarsi nel processo analitico, ne consente una migliore regolazione e ne diminuisce la tragicità.

Dunque il rapporto con l’idealizzazione può subire brusche deviazioni, distorsioni o il suo naturale percorso evolutivo può essere arrestato in uno specifico punto.

Alcune organizzazioni del Sé patologiche hanno con l’ideale e la bellezza un rapporto disfunzionale e talvolta esse possono assumere un valore negativo ed attivare uno stato del Sé devitalizzato e disarmonico.

Ad esempio nel caso della patologia anoressica, in cui è ideale e bella l’immagine di un corpo in grado di controllare, fino a negarli, i propri bisogni fisici, si verifica una scissione verticale tra bisogni corporei e bisogni affettivi. E ’talmente intenso e vitale il bisogno di essere in relazione con un oggetto-Sé disponibile a lasciarsi idealizzare e a condividere tale idealizzazione che il Sé per sopravvivere psichicamente deve morire fisicamente.

Nella depressione, invece, la bellezza e l’oggetto idealizzato vengono percepiti come distanti, inarrivabili poiché il Sé non ne è all’altezza: gli oggetti-Sé arcaici idealizzati non si sono resi disponibili alla condivisione. Il senso di vitalità e di autostima è tragicamente scarso e l’esclusione dalla bellezza e dal mondo ideale diviene la giusta punizione per non esserne stati all’altezza, talvolta innescando un’inconscia profezia autoavverante.

 

Il secondo tipo di rapporto tra il Sé e la bellezza ha a che fare con la grandiosità: “io sono perfetto e tu mi ammiri”. Oltre che dal contatto con l’oggetto idealizzato, il Sé trae vitalità, forza e coesione da un secondo tipo di esperienza: quella in cui l’espressione e l’esibizione autentica della propria grandiosità suscitano ammirazione ed emozione da parte degli oggetti-Sé.

La possibilità di esperirsi come capaci di mostrarsi sul palcoscenico e di ricevere un’ovazione conferisce forza e ambizione al Sé, che potrà perseguire i propri ideali sentendosene degno e capace ma soprattutto potrà “rischiare” senza temere che il fallimento comporti una tragica frammentazione di annichilimento.

E’ il caso in cui ci si sente in grado di creare e condividere la bellezza. Questa sicurezza orgogliosa, dialogando con l’idealizzazione, costruisce il sano narcisismo vitale del Sé.

Anche in questo caso esempi clinici ci consentono di esplorare il complesso rapporto tra Sé e bellezza. Le strutture narcisistiche di personalità, in cui il bisogno di ammirazione ed approvazione è stato in passato svilito, umiliato e frustrato, rimangono alla continua, rabbiosa, tragicamente fallimentare ricerca di esso. Un circolo vizioso dantesco: eternamente in mostra sul palcoscenico in attesa dell’applauso che gli consenta di sentirsene in diritto, e qualora questo avvenga, incapace di scendere e tornare nei camerini della vita. Il paradosso narcisistico: mai con gli altri, mai senza gli altri!

Pensiamo alle personalità artistiche e quotidianamente “sotto i riflettori” che, nonostante continui successi ed ammirazioni, rimangono intimamente insicure di se stesse e, temendo che quando l’applauso loro tributato finirà non saranno in grado di riceverne un altro, rimangono sul palco, dando voce solamente ad alcuni aspetti del Sé (scindendo quelli non meritevoli di esibizione, con intensa vergogna), conducendo di fatto una vita “chiusa in un teatro”, come un’opera d’arte eternamente ammirata ma ferma per sempre in un museo.

 

L’ultimo tipo di relazione con la bellezza, quello legato alla gemellarità, rappresenta l’espressione armonica dei precedenti. Il Sé può sperimentare una gemellarità empatica, riconoscendosi in essa, nella bellezza e viceversa – “tu sei perfetto come me”.

 

Nella mia esperienza clinica di lavoro come psicoterapeuta mi è capitato talvolta di sentire, di respirare e di vivere la bellezza in seduta o, al termine di essa, appuntare o sussurrare tra me e me “bella seduta!” Mi riferisco a una sensazione di difficile definizione che ha a che fare con l’armonia, con l’ordine e con la simmetria, con l’espressione di una creatività vitale, di un caos appunto ordinato e simmetrico la cui incontrollabilità apre all’esperienza del nuovo e della vitalità e non all’angoscia di un ignoto nebbioso: uno stato del Sé coeso, armonico, vitale e creativo che consente una relazione rischiosamente sicura o sicuramente rischiosa.

Le diverse parti del Sé costituiscono un’orchestra di strumenti che non produce suoni stonati, partiture scisse e fuori tempo ma una melodia ed un’armonia ritmicamente coordinate da un direttore, capaci di dialogare con altre orchestre (altri Sé), in cui può avvenire anche l’emergere di uno strumento solista, che produce qualcosa di nuovo e la cui “dissonanza” non genera caos, ma sorprende piacevolmente.

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