Intervista per Girlpower al dott. Luca Traverso: “I disturbi dell’umore”

Pubblicato il 10 febbraio 2010 in News, Psicoanalisi

I disturbi dell’umore sono patologie piuttosto comuni e che possono influire pesantemente sulla vita di chi ne è afflitto : ne parliamo con il Dottor Luca Traverso

8 febbraio 2010

 

A cura di Antonella Marchisella

 

depressione_1_2Disturbi dell’umore possono essere ritenuti le malattie più comuni, ne sono colpiti infatti almeno il 12% delle donne e l’ 8% degli uomini. Chi è affetto da disturbi dell’umore può ritrovarsi in condizioni di invalidità ed esposto al rischio di suicidio, è opportuno pertanto non sottovalutare il problema e rivolgersi a esperti del settore. Per illustrare una panoramica dell’argomento abbiamo intervistato il Dottor Luca Traverso, Psicologo e Psicoterapeuta specialista in Psicologia Clinica, Membro dell’ International Association for Psychoanalytic Self Psychology , Docente di Psicologia e Sociologia presso l’ Istituto Eurolaurea ed il Centro Studi Pallai :

Dottor Traverso, che cosa si intende per “disturbi dell’umore”?Per “disturbi dell’umore” si intende una categoria diagnostica, definita dai principali sistemi nosografici internazionali (DSM e ICD) di classificazione dei disturbi mentali e della psicopatologia, cui appartengono tutti quei disturbi il cui principale sintomo è l’alterazione del tono dell’umore. In particolare esistono disturbi di tipo depressivo, in cui prevalgono sentimenti di tristezza, sconforto, colpa, vuoto e anedonia, di tipo disforico e/o ciclotimico in cui le normali oscillazioni del tono dell’umore che appartengono alla vita di tutti i giorni risultano fortemente alterate, e di tipo bipolare caratterizzati da un’alternanza repentina di stati umorali opposti: depressione ed eccitazione maniacale o ipomaniacale. In tutti questi disturbi la persona lamenta una compromissione, che può variare da un livello lieve ad uno grave, del sonno e del normale funzionamento sociale e lavorativo dovuta alla presenza del disturbo stesso; in altre parole non ci si sente più in grado di trarre piacere dalle normali attività quotidiane, dallo stare in relazioni con l’altro, perdendo motivazione a vivere. Il trattamento dei disturbi dell’umore richiede un intervento psicoterapeutico per lavorare sulle cause e, in casi particolarmente gravi o per brevi periodi, l’integrazione con un trattamento farmacologico che ne allevia i sintomi. Esistono diversi approcci di psicoterapia, come le psicoterapie psicoanalitiche o la terapia cognitivo comportamentale, ognuna di esse ha una propria teoria sull’eziologia, ossia sulle cause, e sul come lavorare con i diversi disturbi. Rispetto all’efficacia di esse, al momento le ricerche più recenti riportate nella letteratura internazionale non hanno fornito dati chiari, ciò che è emerso però è che la relazione umana di fiducia ed intimità che si stabilisce tra le due persone, paziente e terapeuta, a prescindere all’orientamento teorico di quest’ultimo, risulta essere il fattore determinate per un buon esito della terapia. Ricordiamo però, che nel campo psicologico è sempre fondamentale concentrarsi sull’esperienza unica della persona, immergersi empaticamente nel suo mondo interno, ciò che sente, ciò che pensa, i suoi ricordi, le sue emozioni, che talvolta rischiano di essere offuscati da una semplice etichetta diagnostica.

Qual è l’attuale diffusione dei disturbi dell’umore nella popolazione? I disturbi dell’umore insieme con i disturbi d’ansia, come gli attacchi di panico e l’agorafobia, sono i principali problemi psicologici che affliggono le persone in questo momento sociale e culturale, e costituiscono circa un buon 30% della popolazione clinica, cioè delle persone che arrivano a chiedere un aiuto psicologico. Va detto, però, che esistono una serie di difficoltà psicologiche, come i disturbi di personalità o i disturbi alimentari, in costante aumento tra adolescenti e giovani adulti, che si intrecciano con i disturbi dell’umore e di cui le persone non sono a conoscenza; in altre parole si può chiedere un aiuto rispetto, ad esempio, ad una depressione ma in realtà essa non è altro che l’espressione di un sentimento di vuoto e di angoscia di una più ampia crisi di identità e del Sè.

Che cos’ è la depressione maggiore?E’ il disturbo dell’umore attualmente più diffuso. E’ caratterizzato dalla presenza per un arco di tempo di almeno 6 mesi, di umore depresso per la gran parte della giornata, da difficoltà nel sonno, sentimento di noia e tristezza, preoccupazioni eccessive per colpe e fallimenti, incapacità di provare piacere nei rapporti sociali e lavorativi, possibili pensieri di suicidio. Le persone perdono motivazione a vivere e strutturano la propria vita intorno al tema della perdita e del lutto. Tutto ciò che accade viene letto in funzione di una “inevitabile” perdita di cui spesso ci si sente inconsciamente responsabili e quindi colpevoli; si è destinati alla perdita (dell’amore dell’altro e di se stessi, degli aspetti positivi del Sé, dei successi, ecc.).

Parliamo di alcune teorie della depressione: – aggressività rivolta verso l’interno – posizione depressiva – tensioni fra ideali e realtà – l’ Io come vittima del Super- Io – L’altro dominante. Ci può spiegare brevemente queste teorie?Le teorie da lei citate sono tutte appartenenti ad un approccio di tipo psicodinamico alla depressione. La prima teoria lega la depressione all’aggressività, collegamento ipotizzato già da Freud nel 1915 in Lutto e melanconia. Ciò che accomuna il lutto e la melanconia o depressione è il concetto di perdita, che nel primo caso è reale mentre nel secondo è emozionale. La persona depressa si sente colpevole per la perdita emotiva e relazionale subita e per questo si svaluta, rivolgendo la pulsione aggressiva, che esprime un intento distruttivo nei confronti dell’oggetto verso cui è diretta, verso l’interno, prendendo se stessi come oggetto. La posizione depressiva è un concetto appartenente alla teorizzazione di Melanie Klein, psicoanalista delle relazioni oggettuali che per prima, insieme ad Anna Freud, si occupò dello studio dei bambini. La Klein ipotizzò che lo sviluppo psichico del bambino fosse caratterizzato dall’alternanza di due assetti mentali chiamate posizioni: la posizione schizoparanoide e quella depressiva. La prima, che dura per i primi sei mesi di vita, fa riferimento a uno stato mentale dominato dalla scissione e dalla paranoia persecutoria: il bambino tende a vivere le esperienze come nettamente separate in buone – che forniscono piacere e gratificazione – e cattive – che impediscono gratificazione e piacere. In questo senso il rapporto con il seno materno fornisce il primo terreno di confronto esperienziale: il seno che allatta è quello buono della madre buona; quello che non allatta, perchè non è immediatamente disponibile a gratificare il bisogno, è il seno cattivo della madre cattiva, verso cui si rivolge l’aggressività del bambino; in poche parole, esistono una madre buona e una cattiva. In questa fase si sperimenta l’angoscia persecutoria che caratterizza il rapporto aggressivo e ostile con il seno cattivo.Successivamente, intorno al 6° mese di vita, il bambino entra in una nuova posizione psichica: quella depressiva. Ciò che accade secondo la Klein è che il bambino diviene ora capace di integrare le diverse parti, quella buona e quella cattiva; esiste ora un’unica madre, e ciò comporta un forte senso di colpa per aver diretto, nella posizione precedente, l’aggressività verso di lei, rischiando di distruggerne quindi anche gli aspetti buoni. In questo assetto psichico gli aspetti di colpa e depressivi prevalgono su quelli aggressivi. Secondo la Klein il felice superamento di queste due posizioni caratterizza il normale funzionamento psichico e consente anche nella vita adulta di alternare questi due assetti in maniera sana. Il mancato superamento o specifiche difficoltà nella posizione depressiva, e quindi il timore di aver distrutto le cose buone attraverso la propria aggressività, sarebbe la causa dei disturbi depressivi.Per tensioni tra ideali e realtà si fa riferimento ad una dinamica intrapsichica particolare. Dentro di noi abbiamo una struttura chiamata ideale dell’Io, che in qualche modo orienta il nostro comportamento; in essa esiste una complessa rappresentazione di ciò che vorremmo essere e di come vorremmo essere in relazione con gli altri, del nostro, appunto, ideale. La tensione che si stabilisce tra questa traiettoria ideale e il nostro Io che governa il rapporto con il mondo reale può essere eccessiva e costituire terreno fertile per una bassa stima di Sé e di una svalutazione. La depressione sarebbe quindi conseguenza di una vita non all’altezza del proprio ideale interno.Il modello strutturale della mente proposto da Freud nel 1920 ne l’Io e l’Es, che caratterizza la visione psicoanalitica classica della psiche, prevede l’esistenza di tre strutture interne in costante dialettica. L’Es, totalmente inconscio, da cui scaturiscono le pulsioni libidica e aggressiva, ossia gli istinti primordiali dell’uomo, dominato dal principio di piacere; il Super-Io, parzialmente inconscio, censore morale che si costituisce intorno al sesto anno di vita, dopo la risoluzione del complesso di Edipo, caratterizzato dall’introiezione dei divieti e delle proibizioni provenienti dai genitori in primis, e da altre figure come gli insegnanti; e l’Io, anch’esso parzialmente inconscio, ad esempio nei meccanismi di difesa, deputato a orientare il nostro comportamento secondo il principio di realtà tenendo conto delle spinte dell’Es e delle regole del Super-Io. Freud utilizza una metafora: l’Io è il cocchiere che ha il compito di governare il cavallo nero dell’Es e quello bianco del Super-Io, che talvolta tirano in direzioni opposte, consentendo così gratificazione ed evitamento dei conflitti.Nel caso della depressione, la perdita dell’oggetto d’amore (spesso l’oggetto primario, cioè la madre) può innescare un’identificazione tra l’Io e un oggetto cattivo, non amabile: “non mi sento amato, quindi non sono degno d’amore perché sono cattivo”. In questi casi il Super-Io diviene un “sadico torturatore” dell’Io aggredendolo e innescando i comportamenti autoaggressivi che spesso caratterizzano i disturbi depressivi.La teoria dell’altro dominante è stata sviluppata da Arieti negli anni ’70; secondo questo modello la mente delle persone depresse non si organizza intorno ai propri bisogni e al proprio Sé ma intorno ad un “altro idealizzato”: una persona, come il proprio coniuge, un’ideale, un lavoro, ecc. La vita di queste persone diviene quindi dominata dalla ricerca irrealistica di risposta da parte dell’altro dominante, ed anche se divengono consapevoli dell’irrealistico obiettivo che si pongono, incontrano molta difficoltà a rinunciarci. E’ come se si vivesse la propria vita alla costante, spasmodica, ricerca di una missione impossibile che fa sentire frustrati, devitalizzati e falliti: depressi.

Tra gli psicologi dell’ Io contemporanei, un punto di vista sostenuto di gran lunga è che la depressione non sia effettivamente un disturbo psichiatrico o una malattia. E’ considerata piuttosto come un sentimento che riflette un conflitto e una formazione di compromesso. Lei che cosa ne pensa? La domanda che mi pone solleva un’enorme questione complessa e controversa che caratterizza il dibattito scientifico all’interno della comunità psicoanalitica e psichiatrica: che significa salute psichica? cosa è la malattia mentale? cos’è patologia? Dove finisce il libero arbitrio dei nostri comportamenti e delle nostre emozioni e dove comincia la psicopatologia e la malattia? Ovviamente esistono risposte complesse a queste domande ma credo che in questa sede la cosa più importante da sottolineare sia che, come sostenuto dallo psicoanalista Kohut, possiamo definire patologico tutto ciò che è rigido, inflessibile, che si ripete coattivamente, che limita l’espressione autentica delle diverse parti del nostro Sé e che ci fa sentire vuoti, devitalizzati e prigionieri di un modo unico di essere, frustrando l’espressione creativa del nostro progetto interno di vita ed impedendoci di stabilire legami intimi e gratificanti con gli altri. In questo senso il mio parere è che la depressione rifletta uno stato del Sé, svilito, svalutato e frammentato, con scarsa vitalità ed incapace di stabilire relazioni gratificanti e di mantenere un sano equilibrio narcisistico di autostima, che risale alle relazioni e all’attaccamento con gli oggetti arcaici. In conclusione, al di là delle definizioni e delle etichette teoriche e diagnostiche (disturbo psichiatrico o sentimento conflittuale di compromesso, ecc), che talvolta sono e devono rimanere vincolate al contesto in cui ci si trova e che rischiano di divenire una questione teorica e speculativa, ciò che conta è la possibilità di trasformare e cambiare questi aspetti, attraverso la loro esplorazione all’interno di una relazione terapeutica di fiducia reciproca ed intimità.

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