La capacità di intendere e di volere e il problema dell’imputabilità

Il tema della capacità di intendere e di volere legata ai disturbi psichici rappresenta uno dei più importanti punti centrali e problematici della criminoliga e della psichiatia forense. Lo studio e l’analisi dello stato psichico del soggetto al momento del compimento del fatto reato è compito del perito, il valore legale che tali considerazioni posso avere nel corso dell’attività investigativa e processuale dipende invece dai giuristi: avvocati, giudici, magistrati e pubblici ministeri.

Ugo Fornare nel suo “Trattato di Psichiatria Forense” (2004) ha analizzato approfonditamente questa tematica, per cercare di indicare le linee guida che possano permettere agli addetti ai lavori di lavorare in questo contesto con maggiore chiarezza ed onestà intellettuale e deontologica. Ovviamente questo si traduce nello studio della capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto reato e nella conseguente imputabilità dello stesso.

Art. 85 c.p.. Capacità di intendere e di volere

“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.

E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

Capacità di intendere: “attitudine del soggetto alla comprensione del mondo esterno secondo parametri di normalità o schemi di convergenze controllabili”.

Capacità di volere: “attitudine del soggetto ad esercitare il controllo su stimoli e reazioni, ad attivare meccanismi psicologici di impulso e di inibizione in attuazione di decisioni assunte in conformità alla propria comprensione della realtà e alle opzioni conseguenti”.

La capacità di intendere e di volere deve essere presente al momento del fatto e con riferimento al singolo fatto concreto.

Devono essere quindi valutate:

  • la sintesi delle condizioni fisio-psichiche che consentono l’ascrizione di responsabilità all’autore di un fatto corrispondente ad una previsione legale e che rendono pertanto tale fatto un reato meritevole di pena.
  • la costituzione fisica e spirituale di una persona che, al momento in cui ha commesso il fatto, era maggiore di età, “sana” (di fisico e) di mente e si trovava in una situazione di normalità.

Art. 88 c.p.. Vizio totale di mente

“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”.

Art. 89 c.p.. Vizio parziale di mente

“Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso ma la pena è diminuita”.

In passato l’incapacità di intendere e di volere doveva derivare, (ex art. 88 c.p.), da un’infermità, ossia una condizione del soggetto che avesse evidenza e sostanza patologica, che fosse cioè clinicamente accertata (quadri nosografici definiti). Tale affermazione fa riferimento a concetto classico di malattia psichiatrica fondata su basi biologico-somatiche.

Oggi si afferma una concezione più ampia di malattia psichica, su basi psicologiche e interpersonali, e determinata da alterazioni qualitative; infatti non si richiede più un processo morboso organico dimostrato, ma un disturbo psicopatologico, che rappresenta un’evoluzione del concetto di malattia mentale che comprende anomalie psichiche riconducibili alla psicopatologia clinica.

Rientrano dunque sicuramente in questa categorizzazione le malattie psichiatriche (psicosi) in senso stretto, caratterizzate dalla perdita dei nessi logici e dalla compromissione dell’esame di realtà: Psicosi esogene (disturbi psichici riconducibili a processo morboso che agisce a livello anatomico organico); Psicosi endogene (disturbi psichici, riconoscibili in termini funzionali, per i quali si ritiene esista una predisposizione o un condizionamento biologico: schizofrenia; psicosi maniaco depressive).

Come afferma Fornari il rapporto tra Disturbi di Personalità e incapacità di intendere e di volere solleva diverse questioni spinose. Infatti la stessa definizione di Disturbi di Personalità includerebbe l’attuazione da parte del soggetto che ne è affetto di comportamenti abnormi, e ciò implicherebbe una sorta di “diritto” al riconoscimento del vizio di mente.

Per ovviare a questo problema e per far sì che possano rientrare nelle categorie del vizio totale o parziale di mente solo i Disturbi gravi di Personalità, cioè quelli che presentano “slittamenti psicotici” – in altre parole quelli che Kernberg definisce Disturbi di Personalità con funzionamento Borderline - o quei Disturbi di Personalità la cui psicodinamica ha inciso realmente nell’attuazione del fatto reato, Fornari afferma: “ciò che contanon è stabilire la connessione tra categoria dagnostica e reato, bensìtra disturbo psicopatologico, funzionamento patologico psichico e delitto”. In altri termini il “valore di malattia” deve essere riconosciuto solo a quei reati che equivalgono ad un sintomo psicopatologico di quadri clinici specifici (Mueller-Suur, 1956).

Dunque la diagnosi di Dsturbo di Personalità di per sé non basta per rientrare nel vizio totale o parziale di mente; deve essere valutato il funzionamento psichico del soggetto al momento del fatto reato, e deve essere verificato se tale funzionamento possa essere stato inficiato dalla slatentizzazione dei tratti disfunzionali del Disturbo di Personalità in questione.

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